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TESTO Per non rimpiangere un mondo senza padri

mons. Antonio Riboldi

Santissima Trinità (Anno B) (18/06/2000)

Vangelo: Mt 28,16-20 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 28,16-20

16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Mi ha sempre fatto impressione visitare gli orfanotrofi, o incontrare bambini che non hanno conosciuto papà o mamma. Facendosi vicini a loro, dando loro un minimo di tenerezza si aprono subito, si affezionano o meglio si attaccano, diremmo comunemente, come a cercare di appropriarsi di un aspetto importante della vita che sentono molto bene mancare loro.

Non avere padre o madre è sentirsi "diversi", "incompleti". Ed è una diversità o una incompletezza dentro il cuore che marca profondamente il modo di vivere e di comportarsi.

"Com'è un papa?" mi interrogava una volta un bambino, guardandomi fisso come a cercare nel profondo dello sguardo una risposta che, intuiva, le labbra non sapevano o non potevano dare. E me lo chiedeva dopo che io raccontavo familiarmente con lui la mia vita di bambino vicino a mamma e papà, con i miei fratelli. Non seppi rispondere. Come avesse compreso il mio imbarazzo, non volendo restare privo di una risposta che riteneva troppo importante per il suo cuore, a bruciapelo mi chiese: "E tu vorresti essere mio papa?". "Con tutto il cuore" fu la mia risposta. E spuntò un sorriso di quelli grandi, quelli di chi finalmente è uscito da un buio "dentro".

Sapere di avere un padre o una madre non è tanto importante per il fatto di conoscere la propria origine, i propri natali, ma per conoscere la propria vera natura, il perché di questa vita; soprattutto sapere che qualcuno ti ha tanto amato da darti la vita e che questa vita la ama come la propria.

Quante volte ci viene da dire, di fronte ad un bambino sporco o cattivo o infelice: "ma di chi sei figlio? Non ce l'hai un padre?". Così come esprimiamo il nostro stupore di fronte alla bellezza, alla intelligenza, soprattutto di fronte alla bontà di un uomo, "che meravigliosi genitori deve avere avuto o ha!", come quando dissero di Gesù: "Benedetto il ventre che ti ha generato e il seno che ti ha allattato!".

Oggi, nella solennità della Santissima Trinità, leggiamo un brano della lettera di san Paolo ai Romani; l'apostolo sembra voler ricordare loro la grandezza, la gioia, di chi veramente erano con il dono della fede: "Fratelli, tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito di schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se partecipiamo veramente alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria" (Rm 8, 14-17).

Sono parole che, contemplate con il cuore, a una a una, dovrebbero da sole farci saltare dalla gioia. Non sono mezze parole, come usiamo noi: sono il Cuore di Dio, che si rivela a creature che tratta e ama come si trattano e si amano i figli, chiamandoli a condividere tutto ciò che si è e si ha. E' troppo grande questa verità per descriverla con le parole. E' un poco come quando io parlo di mio papà e di mia mamma. Tutti si accorgono che descrivendo un rapporto, un affetto, e come dipingessi di colori il cielo. E chi ascolta è sempre portato a voler entrare in quel mondo che tante volte releghiamo fra i sogni. Ed è invece il nostro mondo.

Ho visto persone piangere qualche volta, quando volendo portare qualche esempio della mia vita con mia mamma, le ho come rese partecipi di un grande amore. Dovrebbe succedere così ogni volta che noi parliamo di Dio: che non è un "essere" senza forma, freddo, distante, sconosciuto, ma è "un papà".

Ogni volta che Gesù nel Vangelo ne parla, e Lo prega, e come se spalancasse le porte del Paradiso per dirci: "Guarda come è fatto tuo Padre; guarda di Chi sei figlio; guarda come sei amato!".

Così parlava Mosè al suo popolo: "Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da una estremità dei cieli all'altra, vi fu mai una cosa grande come questa? E si udì mai una cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu e che rimanesse vivo?.... Sappi dunque e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è un altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te" (Dt 4, 32-34).

Noi invece ci interroghiamo in altro modo. Come mai questi uomini che hanno un "tanto" Padre, sono così infelici, scombinati, spesso infelici? Come mai ci rendiamo così irriconoscibili da sembrare tragiche e a volte orripilanti maschere, più che immagini o specchio di una bellezza e di una felicità che ci viene dal Padre?

La risposta è semplice: abbiamo dimenticato; o non abbiamo conosciuto abbastanza bene la paternità di Dio e siamo come "orfani di Padre".

E' la più grave povertà di un uomo, questa di non saper più gridare come un figlio a Dio: "Abbà, Padre". Ed è una povertà che Gesù raccomanda di soccorrere: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28, 16-20).

 

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